La distribuzione intermensile della mortalità in Italia

Al fine di mettere meglio in evidenza la ripartizione del fenomeno nel corso dell'anno, i dati grezzi del numero dei decessi sono stati trasformati in indici percentuali che tengono conto del numero effettivo di giorni dei vari mesi e del trend della mortalità annua; in pratica il valore 100 contraddistingue un mese la cui mortalità media giornaliera è coincidente con quella media dell’anno di appartenenza, stimata in base all’andamento tendenziale nel periodo oggetto di studio.
L’esame della figura in alto mostra una prevalenza dei decessi nell’intervallo dicembre-marzo, mentre nel restante periodo i valori tendono a mantenersi al di sotto di 100; il minimo compete a settembre. Non sorprende che i dati di marzo siano in linea con quelli invernali, in quanto gli effetti sulla mortalità di taluni fattori si protraggono spesso nel tempo, creando così delle “code” che in questo mese sono quasi sempre evidenti.
Da rimarcare poi - osservando la figura in basso - che i mesi con maggiore mortalità sono anche quelli nei quali decisamente più alto è l’indice di dispersione delle rispettive serie mensili, a dimostrazione del fatto che in essi sono più ampie certe oscillazioni occasionali, in quanto ben maggiore è il ruolo che possono giocare certe forzanti ambientali (quali le epidemie da virus influenzali o certe condizioni climatiche di forte freddo) la cui intensità è assai variabile da un anno all’altro.
Significativo pure che l’indice di dispersione dei valori delle serie presenti una evidente risalita nei periodo estivo, suggerendo così che anche nella fase calda dell’anno possono prodursi dei picchi di mortalità riconducibili a cause esterne: in questo caso si tratta delle ondate di calore intense.

I fattori della stagionalità dei decessi

Il fatto che la mortalità possa presentare differenze significative nel corso dell’anno dipende da fattori sia di tipo endogeno che di tipo esogeno. Senza dubbio quelli di seguito indicati sono i principali.
a) La vulnerabilità della popolazione (endogeno). Quanto più basso è il livello di sviluppo di una comunità e tanto più elevata risulta la sua esposizione verso certe forzanti esterne; ne consegue che, a parità di condizioni ambientali, una popolazione arretrata tende a presentare differenze di mortalità nel corso dell’anno più marcate rispetto ad un’altra maggiormente sviluppata.
b) La struttura per età della popolazione (endogeno). Sulla vulnerabilità complessiva incide anche l’età media della popolazione interessata: all’aumentare della percentuale di anziani, crescerà il numero di soggetti potenzialmente sensibili ad un qualche tipo di aggressione esterna.
c) Il grado di disconfort bioclimatico (esogeno). Sappiamo che temperature molto basse in inverno oppure molto alte in estate impongono un notevole sforzo ai nostri meccanismi di termoregolazione, per mantenere costante la temperatura interna del corpo; tale sforzo può arrivare a non essere sopportabile per certe persone molto anziane e/o in gravi condizioni di salute, anticipandone così il momento della morte. È vero che situazioni di elevatissimo caldo-umido possono causare il decesso anche di individui sani per il “colpo di calore”, ma si tratta di casi rari ed associabili a stati bioclimatici proprio estremi.
d) L’incidenza delle epidemie influenzali (esogeno). Come già visto poco sopra, la mortalità presenta i massimi nei mesi invernali; ciò è dovuto in prevalenza al manifestarsi delle epidemie influenzali. Nel 2008 Joshua Zimmerberg, del National Institute of Health (USA), ha analizzato il meccanismo per cui i virus dell’influenza sono più contagiosi alle temperature invernali rispetto a quanto avviene durante i mesi caldi.
Il virus è dotato di un involucro esterno, un gel gommoso costituito da fosfolipidi, che lo protegge nei passaggi fra persone. A bassa temperatura, tale guaina esterna si indurisce, svolgendo efficacemente l’azione difensiva; a temperature superiori ai 16°C il gel tende a sciogliersi, non proteggendo più il virus dalle eventuali aggressioni esterne (fra cui saponi e detergenti). In inverno quindi il virus può spostarsi difeso dall’involucro fino a raggiungere il nostro apparato respiratorio dove, una volta sciolto dal calore corporeo interno, è in grado di infettare le cellule; nei mesi caldi, la mancanza della guaina protettiva rende invece molto difficili i passaggi dai malati alle persone ancora indenni (oppure fra specie diverse) arrestando di fatto l’epidemia. Si è notato che anche una bassa umidità, oltre al freddo, favorisce la diffusione dei virus. Le ricerche di Zimmerberg paiono così ben spiegare l’insorgenza di epidemie influenzali fra Novembre e Febbraio nell’emisfero Nord e fra Maggio e Agosto nell’emisfero Sud. Tranne alcuni casi, le influenze non hanno in genere conseguenze gravi sulle persone in normali condizioni di salute; l’effetto sulla mortalità è perciò dovuto  – analogamente a quanto detto per il disagio bioclimatico –  all’impatto su quegli individui particolarmente esposti per motivi di elevata età o di stato fisico già compromesso.

L'andamento della mortalità in inverno ed in estate dal 1950 al 2012

Ponendo l’attenzione sulla stagione invernale  nel suo complesso, l’analisi della serie storica dei decessi ha messo in luce un certo numero di annate con valori decisamente superiori al dato statisticamente atteso; in particolare emergono cinque casi (1953, 1956, 1963, 1968 e 1970) nei quali la sovramortalità ha abbondantemente superato le 25 mila unità, rappresentando perciò delle quote comprese tra il 14,5 ed il 18,5%. Ne risulta un andamento composto da due fasi nettamente distinte - ben evidenziate dalla figura in alto - dovute all'esaurirsi, dopo il 1970, di una serie di condizioni tali da produrre inverni molto gravosi dal punto di vista delle morti.
Un ruolo fondamentale nel determinare l’entità dei decessi in inverno - come già precisato - è quello delle epidemie influenzali. Più ricorrenti sono quelle del tipo A – vi ricadono ad esempio i virus che avevano colpito nel 1956, 1965, 1968 e 1970 – mentre il tipo B è meno frequente e soltanto nel 1963 ha comportato seri problemi per la salute pubblica.
Il freddo in inverno influisce sulla mortalità sia in modo diretto, sia indiretto: direttamente, in quanto può aggravare tutta una serie di patologie del sistema cardiovascolare e dell'apparato respiratorio; indirettamente, perché in grado di aumentare l'aggressività complessiva delle epidemie influenzali.

La figura in basso riporta l’andamento per l’Italia dell’indice medio di mortalità dei tre mesi estivi, nel quale si notano tre fasi ben distinte: una prima tra il 1950 e il 1970, con media generale intorno ad 87; una seconda tra il 1971 e il 1981, con media di 92; una terza, dal 1982 in poi, con media ulteriormente cresciuta a  quasi 94 e soprattutto con una varianza assai maggiore di quanto osservabile in precedenza.
Il passaggio dalla prima alla seconda è sicuramente legato alle vicende del fenomeno in inverno, con il crollo dei valori dopo il 1970 (il calo della percentuale dei decessi nella stagione fredda e l’esaurirsi dopo il 1970 di quei gravi episodi di epidemie influenzali, prima ricorrenti, hanno infatti avuto come automatica conseguenza un innalzamento della quota relativa all’estate). La terza fase invece è prevalentemente dovuta a cause ambientali tipiche proprio dell’estate e cioè alle ondate di calore. In effetti dai primi anni Ottanta si osservano alcuni cambiamenti nella distribuzione barica sull’Atlantico settentrionale, capaci di favorire, nella stagione calda, una maggiore frequenza rispetto al passato  di condizioni anticicloniche sul Mediterraneo. In quest’area quindi le ondate di calore – cioè delle serie di giornate consecutive con temperature molto al di sopra della norma – sono divenute assai più numerose ed intense in rapporto a quanto registratosi nei tre decenni precedenti, procurando così dei problemi per la salute delle persone a rischio.

 

Da rilevare i dati del 2012, con incrementi di mortalità significativi sia in inverno che in estate.
L'inverno, con un indice medio di 119,3 è stato il terzo più gravoso di tutta la fase post-1970; la causa principale di ciò è presumibilmente da ricercarsi nelle condizioni meteorologiche di febbraio, mese risultato davvero molto più freddo della norma.
L'estate ha presentato un indice medio di 97,4 col quale si colloca al quarto posto di tutta la serie; in effetti la stagione 2012 è risultata davvero calda, con medie termiche inferiori soltanto a quelle dell'assolutamente eccezionale 2003.
Sempre importante infine valutare i reali ordini di grandezza delle questioni in gioco: nel trimestre dicembre-febbraio i decessi sono stati 175400 a fronte di 143500 in quello giugno-agosto. Rispetto ai valori attesi che si possono calcolare, l'ecceso di mortalità invernale del 2012 può essere così stimato attorno alle 17 mila unità, mentre quello estivo in circa 7 mila. Tali dati confermano ancora una volta come sia del tutto assurdo che l'attenzione mediatica e sociale per questi argomenti si rivolga unicamente alla mortalità estiva, trascurando così la situazione dell'inverno, quando invece si hanno i problemi marcatamente più gravi.